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Nuovo cinema paraculo: “Corporativismo celeste”

di Christian Raimo

E in questi giorni mi sto chiedendo: magari è colpa mia? Magari è un mio malumore di questo periodo di inizio estate che io non riconosco e che mi porta a irritarmi per dei libri, degli spettacoli, dei film che invece riescono a colpire favorevolmente, se non a entusiasmare moltissimi altri. L’ultimo è Corpo celeste – il film d’esordio della trentenne Alice Rohrwacher che ha fatto faville a Cannes e che ha ricevuto consensi unanimi: film grandioso, quattro stellette, magnifico, rivelazione, sorpresa, Corriere, il Fatto Quotidiano, Famiglia Cristiana, il manifesto, Curzio Maltese, Goffredo Fofi, chiunque si occupi di cinema in Italia ne parla bene, se non strabene.
Potrei pensarci un po’ su quindi alle mie fonti di malumore e evitare di trasformarle in idiosincrasia?, mi chiedo. Ci sono delle ragioni comunicabili per cui io invece ho trovato Corpo celeste un film insostenibile, scorrettissimo, arrogante; o era solo il caldo e la stanchezza?
Beh qualche ragione c’è, mi dico. Per esempio ho trovato scorretto realizzare un film su un soggetto così specifico in modo così manicheo. Creare un apologo sull’Italia contemporanea da un’idea così rigida del mondo circostante.
L’esile trama è quella di una ragazzina tredicenne, immigrata di ritorno a Reggio Calabria insieme a mamma giovane e sorella diciottenne dopo dieci anni passati in Svizzera. Qui si troverà, per integrarsi, a dover fare la cresima in una parrocchia e a illuminare con il suo sguardo innocente un mondo fatto solo di degrado: spirituale, culturale, umano.
Niente della realtà che viene raccontata da Rohrwacher – attraverso gli occhi puri della piccola Marta – è passibile di redenzione. Non c’è nessuna pietas per nessuno. Tutto è merda. E tutto rimane merda. Si può riderne, si può rimanerne impauriti, sorpresi, schifati, atterriti, si può pensare ‘Ecco finalmente un ritratto veritiero e coraggioso della società italiana così com’è, imbarbarita e ripugante’ e si può uscire dal cinema appagati da un senso di distanza da questo mondo fetido, un altrove con cui non avremmo, speriamo, mai nulla a che fare.
È merda e rimane merda la Chiesa che è l’unica protagonista del film, ritratta secondo i peggiori cliché che possiamo immaginare: corrotta (ci sono i vescovi che si ingozzano di pastarelle nel retro della sagrestia), collusa col potere (ci sono preti e vescovi che brigano per racimolare voti per i piccoli potentati locali, di centrodestra ça vans dire), crudele (la catechista in combutta con un orrido sagrestano tuttofare uccide i gattini trovati per caso nei locali della parrocchia), ignorante (nessuno spiega alla povera piccola protagonista il significato dei termini Elì elì lema sabactani: cavolo, bimba, c’è internet!), razzista (parlano tutti male degli immigrati), ipocrita (la vecchia che in chiesa spettegola sulla bambina e si prende uno schiaffo dalla sorella), e soprattutto brutta, esteticamente orripilante, irredimibile (sono tutti grassi, coatti, inebetiti, meschini, sprofondati in un disastro umano fatto di gambe gonfie, pedalini puzzolenti riarrotolati nelle scarpe, cinquantini smarmittati e inquinanti, capigliature da carnevale). Gli unici personaggi ancora scevri da questa patologia civile sono le tre donne della famiglia: le uniche belle, magre, vestite con maglioncini dai colori decenti, capaci di avere relazioni non subumane.
Perché, uno si chiede, scegliere di ritrarre un oggetto per cui si prova un tale sentimento di disprezzo privo di ambivalenza? Semplice: perché è sempre la Chiesa. Col suo enorme portato simbolico, coi suoi crocifissi, i suoi sacramenti, con la sua presunta autorevolezza, e quindi questo senso di disgusto non può che balzare agli occhi – per contrasto. Basta inscenare una catechista che si comporta come una figurante di Uomini e donne ed è fatto. L’attrito è garantito.
Fino alla scena più terribile e scorretta di tutto il film: il prete, Don Mario, va insieme a Marta a recuperare un vecchio crocifisso ligneo nella chiesa diroccata del suo paese natio, paese fantasma di montagna, apparentemente abitato solo da un prete malandato ma autentico, cieco e fumatore, che come un oracolo dà a Marta tutte le risposte di cui lei aveva bisogno: Gesù era una furia, le dice, in un monologo da piccolo inquisitore, uno che se c’era da accusare accusava, se bisognava dare in escandescenza non la mandava a dire: un fustigatore, una specie di cantante grunge. Si caricano il crocifisso sulla macchina, ma lo legano male, e ad una curva la macchina sbatte contro il guardrail, e il crocifisso ligneo si stacca e scivola fatalmente nel precipizio sottostante, direttamente in mare, dove lo vediamo galleggiare alla deriva.
Con un’immagine che più didascalica non si può veniamo a concludere: Cristo se n’è andato, non voleva più stare con noi. Con noi grassi, corrotti, ignoranti, con noi peccatori insomma, è andato a farsi un bagno.
È disarmante proprio la tenuta teologica di un film esteticamente così consapevole (dalla fotografia al montaggio al sonoro, la presenza della regia è sempre evidente quando non invadente, à la Dardenne per capirci): da dove ha preso le sue idee sulla Chiesa Rohrwacher? Ha letto un libro di Nick Cave e stop per farsi la sua idea di Cristo? Da dove ha preso le sue idee sul Sud cementizio e inquinato? Dalla sua esperienza? È possibile basarsi solo sulla propria esperienza per fare un film? E soprattutto: è possibile che una visione così semplicistica da un punto di vista e teologico e sociale – sembrano le idee che avevano i miei compagni radical-chic dell’università che parlavano male della Chiesa pappona e del Sud abusivo e monnezzaro – possa risultare efficace come sintesi? “Un grande film civile”, come era scritto su Repubblica. Un grande film civile: un film che fa un’unica definitiva, liquidatoria estetizzazione del degrado per raccontarci i mali dei milioni di italiani che credono in Dio e vivono in case abusive? Quale è la possibile salvezza per loro? Riemigrare in Svizzera? Mettersi a dieta? Trasformare le chiese in enoteche?


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