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Bellas Mariposas

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A chiunque viva o si trovi a Roma consiglio di andare a vedere Bellas Mariposas di Salvatore Mereu, tratto dall’omonimo romanzo di Sergio Atzeni. A fronte di una vicenda distributiva che sfiora i cieli del demenziale tenuto conto della sua qualità, il film  inizia per così dire oggi (9 maggio, all’Alcazar) il suo percorso più o meno regolare nell’accidentata capitale. Da oggi sarà possibile vederlo anche a La Spezia, a Savona dall’11 maggio. A Milano (omonima di una grande città capace di trattenere il meglio intra moenia), in occasione della festa del cinema, Bellas Mariposas sarà programmato all’Apollo per la sola giornata del 15 ma a partire dalle 13.00. Ininterrottamente, fino a sera.

Tutto questo per dire che l’Italia dell’apparato culturale (distribuzione, grossi media tradizionali e altre stelle morenti) continua a brillare per la capacità di separare il grano dal loglio scambiando l’uno per l’altro e indirizzando il grande pubblico bovinamente meritevole del disastro in atto verso la melma bipartisan. Se non è Pieraccioni è quella puttanata gonfia di retorica che è stato quest’anno il Concertone del primo maggio.

Tutto questo per spiegare soprattutto come un film premiato ai festival (Venezia, Rotterdam, Bif&st), capace di staccarsi a colpo d’occhio dalla mediocrità audiovisiva cui solo il cinismo o l’amore riflesso di botteghino porta a legare a “cinema” quell’”italiano” che dovrebbe smentire il sostantivo (mentre un nuovo cinema italiano di grossa qualità esiste miracolosamente a dispetto dei mezzi di cui dispone), tratto degnamente dal romanzo di uno scrittore che dovrebbe far bene al nostro orgoglio e che invece il goyano sonno di redattori e capostruttura (il “discorso sulla cultura”) si accontenta di relegare nella categoria “di culto”, per esistere e essere visto (questo bel film che vi sto consigliando) prevede necessariamente il sacrificio fisico del suo autore o qualcosa di simile. E infatti Salvatore Mereu Bellas Mariposas se l’è prodotto praticamente da solo (Rai Cinema è arrivata in un secondo tempo), e, sempre da solo, lo sta portando adesso in giro con una sorta di artigianale e massacrante distribuzione porta a porta di cui si sta cercando di dare qui testimonianza.

D’accordo morire per un verso. Ma per l’idiozia dei burocrati e dei quadri?

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Bene, ma di che parla questo film?

È la storia di una ragazzina di 11 anni (Cate) che vive nel periferico quartiere cagliaritano Sant’Elia, prigioniera e neanche troppo di una famiglia che una cattiva traduzione dell’americano definirebbe “disfunzionale” mentre è sotto sotto-proletaria (sorella prostituta, fratello tossico, padre debosciato eccetera) e dunque fondamentalmente in grado di muoversi su e giù per un mondo che ai rottami e al materiale di risulta alterna spazi di libertà. Le avventure di Cate, della sua amichetta Luna e degli strampalati degradati crollanti disfatti ma in qualche modo indistruttibili (come Molloy e Malone, o i personaggi di Cinico tv) abitanti del quartiere. C’è disincanto (sentire e vedere una bambina di 11 anni che parla di pompini in modo disinvolto può mettere un filo di disagio) ma anche una più grande innocenza che lo fagocita (Cate è illibata e tale è decisa a restare con un candore che anziché disfarsi si moltiplica quando sua sorella torna a casa dopo aver battuto tutta la notte e le due si incontrano).

È un film che si è preso il lusso di essere girato in ordine cronologico (“perché le piccole attrici potessero crescere col film, giorno per giorno”, dice Mereu) e questo per paradosso dà forza a una struttura narrativa che, al contrario, dopo il montaggio di cronologico ha ben poco: vediamo quasi sempre prima ciò che accade dopo e viceversa. C’è una certa commedia all’italiana, c’è la lezione alleggerita di Ciprì e Maresco, c’è il tentativo (riuscito, con qualche sbavatura) di recuperare una certa ariosità da nouvelle vague metropolitana (le scene su e giù per la città) e soprattutto – nei momenti migliori del film – la felicità dei personaggi (la rottura del riflesso pavloviano che al disagio fa seguire l’immaginario da psicofarmaco con gravi musiche di sottofondo) non diventa favola. Se una qualche lezione etica si può trarre è: dal momento che il mondo è finito, perché lasciarsi abbattere dall’inutile che tanto bene abbiamo utilizzato per rovinarci la vita?

Se non la si vuole trarre, meglio.

Qualche giorno fa, con Christian Raimo, sono stato invitato a Urbino al primo Festival del Giornalismo Culturale Italiano. Nei nostri interventi abbiamo stigmatizzato l’anticipazionismo e l’ufficiostampizzazione (copyright C.R.) che porta i media a considerare non più censibile tutto ciò che è uscito oltre una certa data. I media in questo modo riflettono l’agenda degli uffici stampa ma escludono la possibilità che si rifletta su ciò che di buono capita sotto o anche a distanza di tiro. L’insana tempestività uccide la salvifica inattualità. Una volta avevano l’inconveniente di informare i fatti e non sui fatti (CB), ora hanno perso questo sotto-tipo di autorialità e si limitano a seguire la logica del lemming. Ma la cultura non è lo sport o la politica. Quanto più un libro o un film sono interessanti o addirittura belli, tanto più avrà senso pesarne gli effetti a distanza di tempo. (Qui intanto trovate un riassunto del discorso fatto da Raimo che in queste cose è più bravo di me; durante il festival, per spiegare perché il giornalismo culturale italiano ha l’orchite ha fatto l’ormai nota performance in stile Subterranean Homesick Blues, ma nella indisponibilità telematica di questa esibizione, eccolo invece qui in versione più pacata RaiEducational).

Che c’entra tutto ciò con Bellas Mariposas? Siccome quando vedo o leggo qualcosa di interessante cerco di farne parlare in giro – giacché ci siete, in libreria sfogliate qualche pagina dell’ultimo romanzo di Giordano Tedoldi e vedete se fa per voi – dopo aver visto (quasi casualmente) il film di Mereu, mi sono attaccato al telefono e ho chiamato un po’ di giornalisti per sensibilizzarli alla causa. Tranne in un caso virtuoso in cui sono arrivato tardi io (Il Venerdì, disposto a parlarne ma già in chiusura numero), alla sollecitazione (“scrivete o fate scrivere un pezzo”) seguiva puntualmente lacrimevole richiesta di gancio.  “Sì, ma il gancio dove sarebbe?” Mi si chiedeva dunque (a me!) che il film uscisse ufficialmente in tutta Italia per renderlo giornalisticamente appetibile (“ma il problema”, spiegavo io, “è proprio questo. È magari anche denunciare un sistema assurdo per cui il prossimo Checco Zalone – con il rispetto dovuto al concittadino (Capurso, non Bari) nonché dei grossi critici cinematografici e cantautori che pure lo amano – uscirà in circa mille copie mentre altri film, in certi casi addirittura più interessanti, vedranno il proprio spazio vitale annullato”), che vincesse qualche premio (“ma l’ha già vinto! Anche a livello internazionale. Ora esce addirittura in Belgio!”), che ai suoi attori toccasse la sorte di quelli di Poltergeist (questo il redattore di turno, esasperato e poi annoiato dal sottoscritto, messo alle strette da angoscianti sillogismi, iniziava a comunicarmelo telepaticamente), che Sergio Atzeni risorgesse in veste di angelo sterminatore per far piovere folgore e lava bollente su un sistema tanto orrendo da costringere chi ci lavora (la maggior parte di quei redattori ama sinceramente il buon cinema, scriverebbe e parlerebbe tutta la vita di Pietrangeli e Tsukamoto ma si vede costretto a eseguire gli ordini di filiera) ad agire contro se stesso.

Forse, mi sono detto – lo dico dall’interno, collaborando con molti quotidiani e periodici da edicola, ricevendone sostentamento – un mondo sta finendo. A fronte di una bellezza che non muore (in Italia si continuano miracolosamente a fare bei film, a scrivere bei libri, a fare un teatro talmente apprezzato all’estero da diventare l’estero il suo principale committente: vedi i Motus a New York o Romeo Castellucci acclamato in tutta Europa), è invece in procinto di crollare su se stesso il sistema che dovrebbe darne notizia e rilievo e, calvinianamente, “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. Quel mondo lì, sta forse inabissandosi per sempre ed io, in fondo (pure a fronte dei soldi che ci perderò) ne sono contento. Un pezzo come quello che sto scrivendo adesso, in quel mondo lì, non sarebbe ad esempio concepibile.

bellasmariposas2

Non conosco infine Salvatore Mereu. Non so nemmeno che faccia abbia. Avevo letto tempo fa una recensione molto positiva di Goffredo Fofi. Mi sono imbattuto in un pezzo molto bello su Le parole e le cose, pezzo che ero anche riuscito a leggere in radio a Pagina3. È passato del tempo. Di Mereu e del suo film mi ero quasi dimenticato. Fino a quando, una decina di giorni fa, un’amica mi ha detto che lo facevano solo per due giorni al Sacher di Roma. Così, al volo, ci sono andato. Leggendo i titoli di coda mi sono accorto che la sceneggiatura l’ha scritta Maurizio Braucci. Braucci è anche lo sceneggiatore di Gomorra e de L’Intervallo mi dicevo uscendo dal cinema e unendo i fili…

Che cosa voglio dire? Che di film italiani notevoli negli ultimi anni ne ho visti parecchi. Film i cui autori, per quanto mi riguarda, avrebbero dovuto essere imposti all’attenzione generale. Penso a In memoria di me di Saverio Costanzo, a L’Intervallo di Leonardo Di Costanzo, a Corpo celeste di Alice Rohrwacher (qui su minima&moralia stroncato da Christian Raimo, che però in quel caso a mio parere prese un abbaglio), a La bocca del lupo di Pietro Marcello, a Le quattro volte di Michelangelo Frammartino, a L’uomo che verrà di Giorgio Diritti o (spingendoci un po’ indietro) a veri e propri capolavori in grado a mio parere di rivaleggiare coi vecchi Ferreri e Pasolini quale il Totò che visse due volte di Ciprì e Maresco.

Poi, su questi film si può non essere magari d’accordo. Io e Raimo non lo siamo ad esempio su quello della Rohrwacher. Magari qualche lettore andrà a vedere Bellas Mariposas e ne resterà deluso. Benissimo. La cosa che trovo insopportabile è che si prenda invece per campo di discussione condiviso uno in cui il problema dell’estetica sia un optional.

Piccolo avviso. A proposito di questo spazio, se il cielo ci assiste, arriveranno presto importanti novità. Non stiamo lavorando – stiamo passando letteralmente notti insonni per provare a darvi uno spazio di discussione fatto sempre meglio. Anche qui: seguiranno (si spera) post.

Buona visione.


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